Un racconto della scrittrice Lorenza Poletti ambientato nella Treviso degli anni ’40

FRANCESCA DEI CALICANTI

Mi hai preso la mano
colma di ore di attesa
“cammini come una principessa”, hai detto.
Ora ti amo, capisci …

(L.P.)

 

Cronache di falene che cozzano dentro il cuore.
Cronache di sentimenti vissuti e che dolore, che dolore, nel riconoscerli. Scriverò, giovinetta, la storia del mio povero cuore, così forte, così eroso dalla pazienza delle gambe, delle braccia, delle lacrime che non si arrendono e ustionano ancora una volta tutto ciò su cui cadono.

Mi hanno aperto una finestra questa mattina, e ho potuto vedere la luce.

Il giorno che sposai Adelmo, pioveva un’acqua che sembrava stanca.
Io però correvo.
Davanti a tutti gli invitati, tenendomi schiacciato in testa con una mano il cappello colmo di fiori di campo, e con l’altra alzata la lunga gonna a strati e balze e tulle in cui nella corsa in quel prato e in quel giorno di giugno, si infilavano piccole spighe e fili di gramigna.

 

L’avevo conosciuto in bicicletta, due anni prima, lungo la strada che portava a Camalò, il giorno che decisi di andarmene in campagna dagli zii, che non ne volevo più sapere del fidanzamento contratto dai miei con Giulio, ricco trentenne untuoso, impostomi dall’autorità di un padre che mai mi aveva amato.
L’aria era frizzante e piccole gocce di sudore indugiavano sulla mia pelle.
Lui stava là, disarmante nella sua semplicità di giovane uomo spensierato in chiacchiere con un amico.
Era in mezzo alla strada e la polvere che sollevai frenando lo invase, appoggiandosi alle sue ciglia, curve, bionde.
Mi sorrise come se mi stesse sussurrando “eccoti, sei arrivata”… invece disse “Signorina, la preferisco a Tazio Nuvolari!”
Percorremmo un tratto di strada assieme, poi mi salutò con il più bel sorriso avessi mai visto.
Per 15 giorni non pensai che a lui.
Poi tornai a casa, e lo vidi seduto sul muretto della canonica.
Da 15 giorni mi aspettava.

 

Era nel silenzio che assaporavamo il gusto della felicità.
Era il sentire ogni nostro singolo capello, ogni piega della nostra pelle che perfettamente combaciava con quella dell‘altro.
La consapevolezza della sua testa appoggiata alla mia spalla, mi tratteneva quasi il respiro e mi forzavo a pensare all‘aria o alle nubi o all‘acqua, quasi temessi che qualsiasi altro mio pensiero (i miei pensieri potessero) potesse allacciarsi ai suoi e in qualche modo distoglierci da quell’idillio muto.

 

Padiglione Tre.
Guardo dalla finestra, tra le sbarre c’è una libellula. Si appoggia alla ruggine e si ferisce. Voglio farlo anch’io, ma ho le braccia legate.
Avevo i capelli biondi, i riccioli scendevano dalla mia fronte, che la sbatto ora sui pali di ferro di sangue di sputo.
Voglio camminare sull’erba, l’ho scritto sui fogli con la matita che la punta si spezza sempre, che merda, che piango che poi non si legge quello che sogno.
Voglio mangiare i vostri sorrisi, le vostre frasi sospese.
Voglio ascoltare la goccia che entra nelle fessure dei muri, che cigola piano come le mie parole che ora non trovo più.
Voglio affondare la faccia nel petto delle mie bambine, guardare il sorriso e i dentini come grani di riso che ridono e ridono e che ora non trovo più.
Hai capito? Non li trovo più.
Non le trovo più.

 

La chiamammo Amneris, perché era bella come una principessa.
Adelmo la strinse tra le braccia e corse giù, in piazza San Vito, e poi fino alle Pescherie per presentarla, con la marcia trionfale nel cuore.
Tornò a casa stringendo quel fagottino e un enorme mazzo di fiori di calicanto.
E’ il fiore premiato da Dio – disse piano, sorridendomi e porgendomi i fiori – come me e te.
Mia bellissima Amneris – la voce di Adelmo ora non era suono ma velluto per le piccole orecchie – c’era una volta un pettirosso che, nel rigido inverno, cercava protezione tra i rami delle piante del bosco, ma, nessun albero lo voleva e da tutti era scacciato. Esausto, nel crepuscolo, si accorse di un piccolo arbusto, e in lui finalmente si riparò e trovò rifugio. Era un cespuglio di calicanto: Dio, che tutto vede, volle ricompensare questa gentilezza facendo cadere sui rami di questa pianta una pioggia di stelle splendenti e profumate … – e su di noi una pioggia di bambini belli come questa qui! – disse Adelmo sollevando lo sguardo dalla piccola che si era addormentata, e guardandomi felice come mai l’avevo visto .
– Sarò il vostro albero di calicanto, protezione infinita e mai paura! –
Quasi gridò con quel suo spiccato accento trevigiano per il quale sempre lo prendevo in giro, lui fingeva di indispettirsi e finivamo ogni volta a far l’amore …

 

Era un padre fiero della sua piccola, emozionato nel vederla muovere i primi passi, euforico quando la prima parola che lei pronunciò fu “papà”, generoso e prodigo di carezze e baci .
Ogni sera terminato il lavoro, se la caricava in spalla, la portava all’Osteria all’angolo con vicolo Bianchetti e le prendeva una spuma.
E stava là a guardare quel visetto e le due fossette sulle guance che lei gli regalava per amore.

 

Via Inferiore era piena di suoni, di voci, di chiacchiericcio di donne, di saluti sulla soglia dell’osteria, e di piccoli adulti-bambini che prendevano parte alla vita della strada, della famiglia, che inventavano storie e intonavano canzoni.
Li guardavamo i bambini, io e Adelmo.
Poi lui guardava me, accompagnava la ciocca di capelli che mi scendeva sul viso e la fermava dietro il mio orecchio con la dolcezza disarmante di un uomo innamorato: “..il prossimo sarà un maschio, lo chiameremo Guglielmo”.

 

Tre anni dopo nacque Fiamma.
Poi Savina.
Poi Anita.
Poi Adelmo iniziò a non sorridere più.
Dov’era il figlio che desiderava più di ogni cosa?
Più delle serate a giocare a tresette con gli amici.
Più della Lancia Aprilia.
Più di me, ormai.
Vedevo insinuarsi in lui un tormento che si concretizzava in una gestualità inusuale, brusca, invasiva, sanguigna.
La lama dell’insoddisfazione gli scavava un vuoto dentro che prosciugava le parole d’amore a cui eravamo abituate.
Una rabbia muta, decantava nelle sue vene.
Sentivo le voci delle bambine giù in strada “..è arrivato un bastimento .. carico di …E..!! “ quando mi arrivò il primo ceffone.
Lui lo disse sibilando, sottovoce “.. un figlio maschio è necessario perdio, e tu non sei capace di darmelo.”

 

Ora annuso i mattoni e le unghie che mi torturano ogni mattina.
Annuso le ragnatele che si abbandonano senza resistenza alle mie carezze. Annuso le cuciture della poltrona su cui posso sedermi la domenica e il ruvido dei termosifoni.
Annuso gli archi di pietra vicino alle latrine.
Annuso le impronte delle dita qui, sul muro, e i disegni e le scritte che non leggo. Non le vedo più.
Cerco il profumo delle mie bambine.
Cerco il valico per raggiungerle.  

(continua)

Lorenza Poletti nasce in Trentino ma risiede a Treviso da molti anni.
Ha studiato Lettere Moderne all’Università si Bologna ed è madre di due figli.
Si è occupata a lungo di Teatro e soprattutto di Poesia.
Esordisce nella Prosa pubblicando nel 2013 il romanzo LE FARFALLE IN TASCA.
Seguono nel 2015 LA PIOGGIA E’ FEMMINA, nel 2016 CASTE ROSE. Nel marzo 2017, a Treviso, è relatrice con le scrittrici Margherita Oggero e Saveria Chemotti, al primo Convegno di “Scrittura al femminile.
Nel 2018 pubblica il romanzo MAMA.

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