FRANCESCA DEI CALICANTI da LA PIOGGIA E’ FEMMINA di Lorenza Poletti (seconda parte)

Tre anni dopo nacque Fiamma.
Poi Savina.
Poi Anita.
Poi Adelmo iniziò a non sorridere più.
Dov’era il figlio che desiderava più di ogni cosa?
Più delle serate a giocare a tresette con gli amici.
Più della Lancia Aprilia.
Più di me, ormai.
Vedevo insinuarsi in lui un tormento che si concretizzava in una gestualità inusuale, brusca, invasiva, sanguigna.
La lama dell’insoddisfazione gli scavava un vuoto dentro che prosciugava le parole d’amore a cui eravamo abituate.
Una rabbia muta, decantava nelle sue vene.
Sentivo le voci delle bambine giù in strada “..è arrivato un bastimento .. carico di …E..!! “ quando mi arrivò il primo ceffone.
Lui lo disse sibilando, sottovoce “.. un figlio maschio è necessario perdio, e tu non sei capace di darmelo.”

Ora annuso i mattoni e le unghie che mi torturano ogni mattina.
Annuso le ragnatele che si abbandonano senza resistenza alle mie carezze. Annuso le cuciture della poltrona su cui posso sedermi la domenica e il
ruvido dei termosifoni.
Annuso gli archi di pietra vicino alle latrine.
Annuso le impronte delle dita qui, sul muro, e i disegni e le scritte che non leggo. Non le vedo più.
Cerco il profumo delle mie bambine.
Cerco il valico per raggiungerle.

Adelmo affogava l’insoddisfazione nello stesso vino con cui qualche anno prima aveva brindato alla nostra felicità.
Bestemmiava ogni volta che incrociava me o le sue figlie.
Poi, iniziò a picchiarci.
Con la violenza inconcepibile di un padre maledetto che si imbestialisce contro una colpa che non c’è.
Contro piccole braccia protese, ormai coperte da lividi
Contro occhi sgranati cerchiati di blu.

Adelina nacque nel campo.
Raccontai che era morta.
Invece la portai da Madre Maria Enrichetta, al Convento della Visitazione.
Nella pace di quel luogo piansi tutta la mia impotenza e affidai la piccola alle mani e alle preghiere delle monache.
Il funerale fu fatto ad una scatola di legno che conteneva stracci e due sassi del Piave.
Sotto il mio velo nero pregavo fitto per il destino di Adelina.

Venne un autunno denso, si respirava l’odore dei vinaccioli fino in strada. Anche Anita aveva finalmente iniziato la scuola elementare, ed io camminavo pensando ai piccoli semi dell’uva e a quello che avevo in grembo. Ancora una volta.
Le bambine mi aspettavano a casa, avevo insegnato ad Amneris ad accendere la stufa.
Fiamma stava preparando il tavolo per la cena quando Adelmo rientrò a casa e mi mostrò una busta sudicia.
Dentro, qualche lira e la lettera del licenziamento.

Come una piccola pallina di neve che rotolando diventa forza che distrugge, così fu per Adelmo.
La furia dell’insoddisfazione, dell’alcool, delle giornate vuote, una garrota che gli stringeva l’anima.
Sempre più.
Inesorabile.
E la mia pancia cresceva.

Alle ore 18 del 15 settembre del 1942 , Geminiano De Prà assessore e ufficiale di polizia giudiziaria del comune di Treviso e il segretario comunale Guido Feltrin, assistiti dal medico condotto dott. Basilio Pavan, giungono alla camera mortuaria della parrocchia del Duomo.
Dal verbale redatto apprendiamo che il medico procede nell’attestare la morte di 4 bambine uccise tramite pistola Beretta M34. I proiettili calibro 9 Corto, sono stati sparati da una distanza di 1 metro, in sequenza, rispettivamente all’altezza del muscolo cardiaco di ognuna delle quattro vittime.
Il medico attesta altresì la morte per suicidio per mezzo della stessa arma di un uomo dall’apparente età di 40 anni ivi pietosamente composto.

Lascio la mia mente e le parole dentro il sangue di questa cucina.
Lascio il mio respiro sulle scale mentre mi trascinate via.
Voglio essere il ragno d’acqua delle paludi.
Che galleggia sul fango e non ha destino.

Guglielmo è nato qui, a Sant’Artemio.
Mi sono aggrappata alla mano dell’infermiera.
Poi quella mano me l’ha portato via.
Quanti elettroshock dovrò fare ancora per dimenticarlo?
Quanto metrazolo serve per rinnegare l’odore del proprio figlio?
Quanti giardini all’italiana necessitano per illudersi di camminare nella normalità?
Quante tane nell’anima mi devo ancora costruire?

Le infermiere dicono che i miei riccioli bianchi sono belli.
Per questo non me li vogliono tagliare.
Anche se sono vecchia, dicono che quando appoggio il capo ai vetri freddi sembro una bambina.
Sono gelsi quelli che vedo dalla finestra.
Sono nati dalle poesie che ho scritto e sotterrato nel campo.
Oggi il dottor Sogliani mi ha sorriso e guardato a lungo.
Ha detto “Francesca, da questo momento sarà seguita da un nuovo promettente medico: la dottoressa Corsi”.
E mi ha lasciato da sola nel refettorio.
Per prima cosa il rumore dei passi.
Poi i capelli.
Poi la linea del labbro superiore.
Il camice bianco, immacolato. Il sorriso delle mie bambine.
Gli occhi come i miei.
Gli occhi dentro i miei.
L’ho sentita la linfa scoppiare dentro me, portare in vita mille rami secchi nascosti nella mia testa. Ho visto i germogli gonfiarsi ed esplodere le gemme. La mia bocca aprirsi e scoprire i denti e gridare.
Ma di gioia.
E le parole che da trent’anni non si componevano, le parole perse quel giorno di ottobre, rimaste là inzuppate nel sangue della cucina, sono tornate da me.
Parole bagnate. Parole lavate.
Così ho potuto corrergli incontro e urlare il suo nome, “Adelina”.

Oggi è il mio compleanno.
C’è la torta e ci sono le candele.
Ho chiesto una bicicletta in regalo, e non vacillo nel salirci.
Oggi mia figlia ha detto “mamma è il giorno della tua ultima ombra”.
Ho riso perché pensavo parlasse del vino.
Abbiamo varcato i cancelli e pedalato tra le voci dei bambini, giù fino in fondo al viale e poi ancora avanti finchè la strada è finita e l’asfalto si è trasformato in polvere .. che sale nell’aria, che si ferma come un tempo, tra le ciglia.

Lui è seduto sul muro che delimita la strada.
Guarda verso noi ed ha un mazzo di fiori in mano.
Sono rami di calicanto.
Lo vedo alzarsi.
Ha spalle larghe e lacrime che scendono senza pudore.
E io riconosco l’odore di cui mi hanno voluto privare.
Così, posso corrergli incontro e urlare urlare urlare il suo nome. “Guglielmo”.

Lorenza Poletti

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